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Sotto un cielo bianco

Sotto un cielo bianco” è il nuovo reportage di Elizabeth Kolbert, autrice, fra l’altro, de “La sesta estinzione”, premio Pulitzer e meritato successo internazionale di cui, a chi non l’avesse già fatto, raccomandiamo vivamente la lettura.

Il suo ultimo libro, probabilmente un po’ meno ambizioso rispetto al saggio dedicato alle grandi estinzioni, conduce il lettore nel campo delle modifiche che l’uomo attua intenzionalmente all’ambiente naturale, fino a toccare una delle tematiche più scottanti del nostro tempo, l’ingegneria climatica, o geoingegneria. Si tratta di una lettura scorrevole: lo stile è quello del racconto in prima persona e il lettore segue volentieri l’autrice nei suoi viaggi e nei suoi incontri, principalmente con scienziati e ricercatori. La curiosità e lo stupore della Kolbert si trasformano nella curiosità e nello stupore del lettore nella scoperta del Cyprinodon diabolis, un pesciolino che sopravvive solo in una oscura piscina di acqua fossile nel parco della Valle della Morte (Stati Uniti), oppure del devastante effetto sull’ecologia australiana del velenoso e prolifico rospo delle canne, un anfibio per cui gli scienziati stanno studiando interventi di ingegneria genetica.
Il tema di fondo, che si parli di rospi, di invadenti carpe asiatiche, dello sbiancamento della Grande Barriera Corallina o dello sprofondamento del delta del Mississippi è tuttavia sempre lo stesso: il conflittuale rapporto dell’uomo con la natura.

L’uomo che plasma l’ambiente naturale cercando il suo vantaggio, che scava canali e crea argini ai fiumi, che introduce ovunque specie esotiche e, da ultimo, che modifica la composizione dell’atmosfera causando, per lo più inconsapevolmente, conseguenze gravi o, come nel caso dell’atmosfera, potenzialmente catastrofiche. Da sempre la principale strategia usata dalla nostra ingombrante specie per rimediare alle conseguenze inaspettate e spiacevoli di alcuni dei suoi interventi sull’ambiente è quella di mettere in atto altri interventi. Siamo fatti così, verrebbe da dire, e per molti versi questa è stata la nostra forza. Il problema è che non di rado le contro-azioni che mettiamo in atto scatenano a loro volta conseguenze negative e inaspettate, per non parlare dei loro costi economici. Per usare le parole dell’autrice, il cui atteggiamento in gran parte del libro resta per lo più neutrale e non giudicante: «la nuova impresa inizia con un pianeta ricreato e si ripiega su stessa. Non è tanto il controllo della natura, quanto il controllo del controllo della natura».

Cirri che velano il cielo in montagna. Una delle tecniche proposte per raffreddare il pianeta consiste nel diradare le nubi cirriformi (cirrus clouds thinning) irrorandole con particelle che favoriscono la crescita e la caduta dei cristalli di ghiaccio di cui sono composte. Foto Pixabay

Come anticipato, un capitolo del libro si occupa della geoingegneria, con riferimento in particolare a due tecniche: l’iniezione di aerosol nella stratosfera e lo sbiancamento delle nubi marittime.

Nel grande dibattito sulla crisi climatica quello della geoingegneria è forse il tema più controverso, fino a risultare una sorta di tabù nel mondo ambientalista, qualcosa di cui è meglio non parlare proprio. La questione è seria perché, diciamocelo senza giri di parole, gli sforzi per ridurre i gas climalteranti sono gravemente insufficienti, le trattative internazionali avanzano – quando avanzano – con una lentezza esasperante, le promesse di mitigazione restano spesso sulla carta, mentre le compagnie energetiche, (sussidiate dagli stessi governi che a parole affermano di voler difendere il clima) non smettono di cercare nuovi giacimenti di combustibili fossili che per il bene di tutti dovrebbero rimanere sottoterra.

Negli ultimi anni abbiamo imparato sulla nostra pelle che l’apparentemente modesto aumento della temperatura media globale di poco più di un grado (rispetto all’epoca pre-industriale) porta con sé conseguenze molto gravi, dall’aumento della severità delle ondate di calore alla morte di vaste porzioni della barriera corallina, per citare solo due esempi. Il percorso business as usual su cui siamo incamminati se va tutto bene porterà il pianeta verso la soglia dei +3°C entro fine secolo, uno scenario catastrofico. Con queste premesse non è difficile prevedere che di geoingegneria in un futuro prossimo sentiremo spesso parlare.

Strategie per modificare la radiazione solare

La definizione di geoingegneria non è univoca, ma di solito sotto questa voce si intendono due distinte categorie di tecnologie: la rimozione del biossido di carbonio dall’atmosfera e le tecnologie che puntano a modificare la radiazione solare (SRM, Solar Radiation Modification, o talora Management). Qui descriviamo brevemente alcune strategie SRM.Nell’ultimo rapporto dell’IPCC (AR6) sotto la voce Solar Radiation Modification sono citate principalmente: il diradamento dei cirri, lo sbiancamento delle nubi marine e l’iniezione di aerosol nella stratosfera.

Il diradamento dei cirri, va precisato, non servirebbe a ridurre la radiazione solare in entrata, bensì agirebbe all’opposto, permettendo alla radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre di disperdersi in maggiore quantità nello spazio.

geoingegneria
Un pennacchio di goccioline di acqua marina si alza nel cielo durante un esperimento condotto nel marzo 2021. Crediti: Brendan Kelaher/SCU.

Lo sbiancamento delle nubi marine (visibile nell’immagine di apertura di quest’articolo) è una strategia che punta a rendere più brillanti – e quindi più efficienti nel riflettere la radiazione solare – le nubi presenti sopra la superficie oceanica, in particolare gli stratocumuli. La tecnica in sé è abbastanza semplice e, nell’opinione dei promotori, anche promettente oltre che priva di effetti dannosi: essa consiste nel nebulizzare l’acqua del mare e lasciare poi che il sale in essa contenuto raggiunga le nubi. Le particelle di sale fungono da nuclei di condensazione e all’interno delle nubi contaminate si dovrebbe osservare la formazione di un gran numero di minuscole goccioline di nube in grado di rendere più riflettente la massa nuvolosa. La tecnica, come ci illustra la Kolbert, sta attirando particolarmente l’attenzione degli scienziati australiani alla disperata ricerca di metodi per salvare la Grande Barriera Corallina.

La tecnologia per modificare la radiazione solare più famosa, e probabilmente più controversa, consiste nell’iniezione di aerosol direttamente nella stratosfera. L’idea è nata osservando le eruzioni vulcaniche più potenti che vi disperdono grandi quantità di composti sulfurei, come avvenne con l’eruzione del Tambora (1815) che l’anno successivo fu causa del ben noto “anno senza estate”. Più recentemente (1991) l’eruzione meno intensa del vulcano Pinatubo abbassò per breve tempo la temperatura terrestre di circa mezzo grado centigrado.
Disperdere biossido di zolfo (anidride solforosa) nell’atmosfera per diminuire la radiazione solare in ingresso comporterebbe probabilmente una riduzione del prezioso strato di ozono, ma le stime sono assai incerte (1-13% di ozono in meno per attenuare di 2 W per metro quadro la radiazione entrante). Anche per ovviare a questo problema di recente è stata avanzata la proposta, giudicata promettente, di utilizzare minuscole particelle di carbonato di calcio (il comune calcare) al posto dell’anidride solforosa.
In entrambi i casi, secondo i modelli atmosferici l’attenuazione della radiazione solare determina una riduzione delle precipitazioni medie globali (che sarebbe in parte compensata da una minore evapotraspirazione, grazie alle temperature più basse) e ci esporrebbe al rischio di cambiamenti indesiderati della circolazione generale.

Il dibattito è solo agli inizi

È bene essere informati dell’esistenza di queste tecnologie, dei loro costi e delle loro controindicazioni, ed è per questo che libri come quello di Elizabeth Kolbert possono svolgere un ruolo importante per impostare una discussione serena, basata sui dati e sull’evidenza scientifica. Vale la pena sottolineare che l’obiezione principale che viene rivolta alla geoingegneria non è di tipo economico o pratico: sono progetti alla nostra portata, non si tratta di fantascienza.

La critica più forte (e certamente molto ben fondata) è che la geoingegneria costituirebbe un’imperdonabile distrazione dal compito ineludibile di azzerare le emissioni carboniche (indispensabile anche per attenuare il problema dell’acidificazione degli oceani) e un alibi per diminuire gli sforzi verso la decarbonizzazione. Dall’altra parte qualcuno ribatte che senza il ricorso ad almeno un po’ di geoingegneria le perdite cui andremo incontro (ad esempio i danni alla barriera corallina australiana) sarebbero troppo gravi. Il dibattito è solo agli inizi.

Fonti e letture consigliate:

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