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Erano “crediti fantasma” quasi tutti i crediti di carbonio certificati da uno degli schemi più usati al mondo. Non c’è più tempo per le scappatoie

Quasi tutti i crediti di compensazione delle emissioni venduti da Verra a moltissime grandi aziende nel mondo sono probabilmente “crediti fantasma”: in più del 90% dei casi non rappresenterebbero vere riduzioni di carbonio e rischierebbero invece di aggravare la crisi climatica.
La notizia arriva da un grande lavoro di inchiesta portato avanti dal giornale britannico The Guardian, dal settimanale tedesco Die Zeit e da SourceMaterial, un’organizzazione non profit che si occupa di giornalismo investigativo.

L’indagine, durata nove mesi, si è basata sull’analisi dei progetti di protezione delle foreste approvati da Verra, leader mondiale nella certificazione delle compensazioni volontarie di anidride carbonica. L’organizzazione gestisce il Verified Carbon Standard (VCS), il programma di accreditamento di gas a effetto serra più utilizzato al mondo: sono loro a rilasciare il 75 per cento dei certificati relativi ai crediti per le emissioni, e in sostanza hanno il potere di trasformare anche aziende molto inquinanti in realtà sostenibili, almeno sulla carta.

Come funzionano i crediti per compensare le emissioni

L’idea su cui si basa il meccanismo, che ha dato vita a un mercato miliardario, è piuttosto semplice. Un’azienda che emette una certa quantità di emissioni ha la possibilità di supportare economicamente progetti di tutela ambientale che promettono di evitare, o anche assorbire, la stessa dose di gas serra.
Quello che in teoria appare come un sistema semplice ed efficace di compensazione rappresenta in realtà una scommessa piuttosto rischiosa. Peccato che in gioco ci sia la possibilità di raggiungere o meno gli obiettivi climatici indicati dalla comunità scientifica come condizioni imprescindibili per contrastare il surriscaldamento globale e risparmiarci le sue conseguenze più catastrofiche.

Non è semplice, infatti, garantire che le emissioni vengano davvero evitate o riassorbite, e misurarne con accuratezza la quantità. Inoltre, considerando che normalmente i progetti di compensazione si basano sulla tutela delle foreste o la coltivazione di nuovi alberi, è impossibile avere la certezza che questi vivano abbastanza a lungo da assorbire effettivamente la CO2 promessa (e venduta): eventi imprevedibili come gli incendi o la diffusione di malattie – resi tra l’altro sempre più probabili dalla crisi climatica – possono facilmente vanificare tutti gli sforzi.

Il caso Verra

L’analisi portata avanti su Verra ha rilevato che oltre il 90% dei crediti di compensazione venduti per proteggere porzioni della foresta pluviale, tra i più frequenti tra quelli utilizzati dalle aziende, sono probabilmente “crediti fantasma” e non rappresentano vere e proprie riduzioni delle emissioni di anidride carbonica.

L’inchiesta, disponibile sul sito del Guardian, ha rivelato che solo una piccolissima parte dei progetti certificati dall’organizzazione ha effettivamente dato prova di ridurre la deforestazione, e alcune analisi indicano che nel 94% dei casi i crediti non hanno apportato alcun beneficio al clima. Inoltre, secondo un recente studio dell’Università di Cambridge, in media le minacce da cui Verra prometteva di proteggere le foreste erano state sopravvalutate di circa il 400 per cento. In almeno uno dei progetti di compensazione sono emerse anche criticità relative ai diritti umani: in Perù, secondo i residenti intervistati dal Guardian, le abitazioni delle popolazioni locali sarebbero state abbattute dalle guardie forestali e dalla polizia, con sgomberi forzati e situazioni di tensione e violenza.

Decine di aziende e organizzazioni hanno acquistato crediti per compensare le proprie emissioni attraverso i progetti nella foresta pluviale certificati da Verra. In questo modo, hanno poi potuto etichettare i propri prodotti come “carbon neutral” o promuovere i propri servizi trasmettendo ai consumatori l’idea di poter fare acquisti o attività, come viaggi aerei, senza alimentare la crisi climatica.

Verra ha criticato l’inchiesta affermando che scienziati e giornalisti fossero giunti «a conclusioni errate» e sostenendo che i metodi utilizzati non rendano davvero l’idea del reale impatto sul suolo. Degli studi su cui si sono basati i giornalisti, però, uno era stato rilasciato in prestampa e due avevano superato il processo di peer review, e quindi erano stati valutati come idonei alla pubblicazione da membri della comunità scientifica esperti delle questioni trattate.

L’elefante nella stanza: non c’è più tempo per le scappatoie

Progetti finalizzati a compensare le emissioni permettono di fatto alle imprese di continuare a inquinare come hanno sempre fatto, con il vantaggio aggiuntivo di poter promuovere i propri prodotti e servizi come rispettosi dell’ambiente e del clima.
Mentre si dà così una bella passata di verde ai rapporti di sostenibilità delle aziende e alle coscienze dei consumatori si corre il rischio – oltre a quello di finanziare progetti che si rivelano poi inefficaci come in questo caso – di trasmettere la pericolosa idea che si possa continuare a produrre e consumare senza freni, e senza conseguenze.

La crisi climatica intanto avanza: sta già provocando effetti devastanti e uccidendo decine di migliaia di persone all’anno in tutto il mondo, e la temperatura media globale è aumentata di “solo” 1°C circa rispetto all’era preindustriale.
Nei prossimi anni il pianeta continuerà a scaldarsi, e secondo la comunità scientifica abbiamo bisogno di azzerare le emissioni nette entro il 2050. Al momento siamo ancora lontani dalla rotta giusta per centrare questo obiettivo, e il mondo non può permettersi di perdere ancora tempo e risorse.

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